Recensione al libro di Stefano Rizzo
Nata dalle ceneri tossiche del trumpismo, la presidenza Biden ha rischiato di essere strangolata nella culla dal tentativo – inaudito – di sovvertire le elezioni presidenziali del 2020. Sopravvissuta al tentato golpe, ha avuto in seguito l’impossibile compito di riportare la normalità in un’America che, dopo sei anni di trumpismo, di normale ha poco o nulla e nella quale, per citare lo stesso presidente, il partito che rimane fedele a Trump “mina le fondamenta stesse della Repubblica”.
Scrivere di Stati Uniti in questi anni di demagogia e radicalizzazione ha voluto dire tentare di trasmettere questa anormalità e di rendere la gravità urgente, ma spesso poco percepita dall’esterno, di “un momento in cui si determinerà la forma di tutto quello che verrà”, per tornare a citare Biden.
Stefano Rizzo dà conto di questo turbolento frangente in questa serie di interventi di rara nitidezza – fotografie delle tessere da cui emerge, come da un collage di David Hockney, il mosaico frazionato di questo Paese complicato, così unico e pure così inestricabilmente collegato alle tendenze e alla cultura politica dell’Occidente tutto. Una superpotenza che affronta un frangente critico, potenzialmente terminale, della propria storia.
Al tempo delle culture wars e dell’involuzione nazional-populista, l’America è afflitta da molti mali pregressi. L’ossessione per le armi, lo strazio annesso delle stragi infinite e insensate, gli omicidi e le violenze di polizia, il razzismo atavico e sistemico. Ugualmente “americani” sono il moralismo, il giustizialismo, il fanatismo religioso e un retaggio puritano tuttora percepibile nelle forme integraliste di pensiero e non del tutto estranee forse anche alla “correttezza politica”, pur necessario strumento di integrazione ed equità nel melting pot multietnico e culturale.
E, vero, c’è anche il precedente di una crisi giudiziario-costituzionale, con un presidente (Richard Nixon) dedito ad abusi di potere e trasgressioni della legge che con la vicenda Watergate minacciò di destabilizzare le istituzioni centrali del Paese. Il trumpismo però, il “semi-fascismo” di cui ha parlato Biden, emerge all’intersezione di una strategia reazionaria iniziata con l’alleanza con i settori più intransigenti dell’integralismo evangelico, la progressiva “fanatizzazione” della destra e infine la forza eversiva di un populismo torvo che ha trovato il proprio demagogo e condottiero.
L’effetto cumulativo è una tensione disgregatrice mai vista dai prodromi della guerra di secessione. Il viaggio di Stefano Rizzo in questa America convulsa parte inevitabilmente dal 2020 e dal tentativo di sovvertire le elezioni e impedire, per la prima volta nella storia della Repubblica, il pacifico avvicendamento del governo. Il libro ripercorre innanzitutto le tappe che seguono il voto di quel fatidico novembre. Lo spoglio esasperatamente lento e incerto delle schede nella manciata di Stati “in bilico”, la confutazione dei risultati avversi da parte del presidente uscente che apre un surreale interregno: i due mesi e mezzo in cui Trump imbastisce la sua Big Lie sulle “elezioni rubate”, che, amplificata nella cassa di risonanza complottista, conduce diritto e inevitabilmente all’insurrezione del 6 gennaio. I capitoli che Rizzo dedica alla vicenda sono al contempo riepilogo e prezioso prontuario delle arcane norme elettorali americane e della idiosincratica complessità delle regole che governano la democrazia “intermediata”, istituita ai tempi dell’illuminato latifondismo dei padri fondatori per attutire la volubilità del popolo.
Molti aspetti dello squilibrio politico e culturale in cui versa la superpotenza occidentale sono da ricondurre proprio agli anacronismi della Carta costituzionale e alla sua strumentale venerazione come testo sacro e immutabile. La congiunzione fatale di integralismo religioso e politico nella corte suprema blindata dagli estremisti “originalisti” si è ad esempio esplicitata nella sentenza che ha abrogato il diritto costituzionale all’aborto, evento tellurico del primo biennio Biden, le cui conseguenze politiche a lungo termine sono ancora da misurarsi appieno.
Ugualmente fondamentali sono, come spiega Rizzo, l’ordinamento federalista in cui ogni Stato e contea ha piena discrezione sulle regole del voto per cariche federali, le modalità con cui si disegnano i collegi uninominali e quindi il gerrymandering, ovvero la loro modifica per favorire l’una o l’altra parte nelle competizioni maggioritarie. E ancora, il sistema delle nomine (a vita) dei togati della Corte suprema, le regole di maggioranza e super maggioranza alla camera e al senato a seconda delle leggi e quindi il filibustering, metodo con cui un partito di minoranza può imporre una procedura aggravata e immobilizzare l’agenda della maggioranza.
Con chiarezza e mirabile dono di sintesi, Stefano Rizzo spiega il peso di ognuno di questi fattori nel contesto attuale e per le sorti di un presidente assurto quasi ottuagenario alla Casa Bianca. Schernito come “sleepy Joe” dall’avversario e non particolarmente amato dall’ala progressista del suo stesso partito, Biden si è insediato dopo un tentato golpe, nel mezzo di una pandemia, trovandosi quasi subito a chiudere ignominiosamente una guerra sbagliata in Afghanistan e a far fronte al nuovo conflitto per procura con la Russia in Ucraina. Non solo. Immobilizzato dall’ostruzionismo del Partito repubblicano e dai franchi tiratori che hanno vanificato una maggioranza puramente simbolica al congresso, ha dovuto fare i conti con l’esplosione dell’inflazione e l’ombra lunga di un predecessore che dall’ “esilio” rancoroso di Mar-A-Lago ha continuato a perorare la menzogna dell’usurpazione. Molti mesi di paralisi legislativa e ostruzionismo a oltranza dei repubblicani sono parsi confermare l’ipotesi, da molti avanzata, di una presidenza “transizionale,” improntata alle buone intenzioni e alla debolezza, possibile preludio di una decisa svolta conservatrice, come fu quella di Jimmy Carter.
Diversamente dall’avvento di Obama, quello di Biden non è stato improntato al prorompente ottimismo dello “Yes, we can” ma a una cauta speranza di normalizzazione. Sin dall’insediamento la sfida della sua presidenza è stata quella di pacificare il Paese dopo il danno arrecato dallo strappo trumpista alla fibra politica e psichica della nazione: se non di ricomporre la spaccatura, insanabile a breve termine, quantomeno di abbassare il tono di un conflitto strumentalmente esacerbato a ogni livello dalla retorica nazional-populista. Sullo sfondo una frammentazione culturale per cui quasi metà elettorato, indotto da una massiccia e tuttora attiva operazione disinformativa, afferma di ritenere lui, Biden, un presidente illegittimo. Una situazione simile quindi a quelle che si verificano al termine di un conflitto civile, con la differenza che per decine di milioni di americani quel conflitto non è ancora concluso, e anzi deve ancor entrare nella fase armata e definitiva. Né si può dire che Biden si sia imposto sullo scacchiere geopolitico, dove il ruolo degli Stati Uniti non mostra variazioni significative rispetto al tradizionale modello egemonico strumentale alla “difesa degli interessi nazionali”, perseguita oggi, peraltro, da una posizione di maggior debolezza in un contesto più imprevedibile. Dopo due anni di compatto ostruzionismo repubblicano, in vista ormai della prova delle elezioni parlamentari di mezzo termine, il “teorema Carter” sembrava insomma decisamente avviato alla conferma, con una disfatta dei democratici nel midterm pronosticata da tutti.
Senonché, nei mesi più torridi dell’estate, una serie di improbabili vittorie legislative da parte di Biden ha reso più fluida e imprevedibile la situazione americana. Il presidente ha firmato leggi sul clima e sulle infrastrutture; un referendum in Kansas, Stato compattamente conservatore, ha favorito il diritto ad abortire; una mezza dozzina di elezioni speciali hanno anch’esse favorito i democratici anche in distretti tradizionalmente repubblicani, suggerendo un potenziale shift motivato soprattutto dalla protesta contro la sentenza della Corte suprema sull’aborto. Incassato il credito politico, Joe Biden ha rotto gli indugi e ha alzato il tiro, attaccando frontalmente la vocazione autoritaria dei repubblicani MAGA e inquadrando le prossime elezioni come uno scontro esistenziale fra democrazia e oscurantismo. I sondaggi hanno preso a registrare pronostici di una ripresa democratica, e Biden è parso somigliare d’un tratto più al Roosevelt inizialmente auspicato dai progressisti che non all’ombra pallida di Carter.
Al di là dei sondaggi e dei responsi elettorali, la questione di fondo è chiaramente lungi dall’essere risolta. Decine di milioni di americani sottoscrivono la grande menzogna e i complottismi annessi, altre decine di milioni esibiscono una preoccupante affinità con l’idea di una resistenza armata; uno dei due partiti nazionali dichiara preventivamente corrotta qualunque elezione che non si concluda con l’esito desiderato. Gli Stati a conduzione repubblicana – meno popolosi ma più numerosi – flirtano con la crisi costituzionale imponendo statuti radicali su diritti civili, immigrazione e pubblica istruzione. Le scuole diventano fronte avanzato delle culture wars con liste di proscrizione di insegnanti e sequestri di libri di testo sospetti. L’ “era di Biden” assomiglia molto a un capitolo non finale dell’era Trump.
Stefano Rizzo conclude il suo viaggio in un certo senso sul più bello, prima di poter conoscere l’esito dello scontro accuratamente definito da Biden come resa dei conti epocale fra democrazia liberale e para-fascismo plutocratico. Per questo, e per poter rendere definitivo il verdetto sulla presidenza Biden, occorrerà attendere. Nel frattempo questo libro è una preziosa guida per il terreno su cui avrà luogo.